sabato 28 maggio 2011

FURTO IN ALBERGO

Il Sig. Marco T. mi scrive ponendomi un interessante quesito che ho deciso di pubblicare perchè trattasi di una situazione purtroppo molto frequente, cui il diritto fornisce un'ampia tutela.
Così mi scrive: Salve sono Marco T. recentemente ho trascorso le vacanze presso una struttura vacanziera nei pressi di Cefalù. Tutto sarebbe andato alla perfezione se non fosse che, nella notte tra sabato e domenica, mentre io e tutti i miei amici eravamo all'interno della discoteca del villaggio, dei malviventi entravano nelle nostre stanze e ci derubavano di tutti i nostri beni. Le chiedo e le domando: è possibile chiedere un risarcimento danni alla struttura alberghiera, visto che, oltre a non garantire la sicurezza delle camere, hanno omesso di sorvegliare i cancelli della struttura da dove furtivamente si sono introdotti, durante la notte, i malviventi?
Preciso inoltre che sulla porta della camera era affisso un foglio in cui si esonerava la struttura da qualsiasi responsabilità in caso di furto. Ciò mi impedisce di chiedere un risarcimento? 
La ringrazio sin da ora, Marco T.

RISPOSTA:
Caro Sig. Marco T., innanzitutto mi spiace per l'accaduto.
La questione giuridica è piuttosto articolata ma ritengo risolvibile. 
Provo a dare un' ampia panoramica, che comprende anche casi analoghi al suo, in modo che la soluzione, sarà ancor più evidente.
Dunque,
il codice civile, nell´ambito del contratto di deposito in generale, disciplina, in particolare, il deposito in albergo (art. 1783-1786) e attribuisce, espressamente, una precisa responsabilità all'albergatore nell'eventualità di furti avvenuti all'interno della struttura vacanziera, in virtù dell'obbligo di custodia gravante sul fornitore della prestazione. Infatti, ai sensi dell'art. 1783 c.c. rubricato “Responsabilità per le cose portate in albergo”, gli albergatori, sono responsabili non solo di ogni sottrazione, ma anche di ogni deterioramento e distruzione delle cose portate dal cliente in albergo, sia se le cose si trovano in hotel, sia se le cose sono nella custodia dell'albergatore fuori dalla struttura durante il soggiorno.
Inoltre, il legislatore, a carico dell'albergatore, ha previsto la piena risarcibilità dell'oggetto sino all'equivalente di cento volte il prezzo di locazione dell'alloggio al giorno.
Non è invece previsto alcun limite di responsabilità nel caso in cui risulti la colpa dell'albergatore, dei suoi ausiliari o dei suoi familiari, in tal caso infatti la responsabilità è illimitata.

La sent. n. 19769 del 2003 della Corte di Cassazione, statuendo in merito al furto subito da un cliente narcotizzato durante la notte nella sua stanza d’albergo da ignoti che gli avevano sottratto un orologio ed una cospicua somma di danaro, ha chiarito alcuni importanti principi :
“Quanto alla responsabilità per le cose portate in albergo (art. 1783 c.c.), il cliente, che non ha l’obbligo di affidare le stesse all’albergatore (Cass. n. 1684-1994), in caso di sottrazione delle stesse, ha diritto ad ottenere il risarcimento del danno

“Qualora, invece, la cosa depositata in albergo dal cliente costituisca una somma di denaro, l’obbligo contrattuale che grava sull’albergatore depositario è quello di custodire e restituire la stessa somma di denaro.

Inoltre, per quanto sopra, si può facilmente evincere che, le frequenti dichiarazioni con cui gli albergatori declinano qualsivoglia responsabilità per i furti di oggetti lasciati nelle camere, non hanno alcun valore giuridico, avendo il legislatore previsto una precisa responsabilità a loro carico.

Dunque, caro Marco, l'unico ostacolo ad un riconoscimento dei suoi diritti, potrebbe venire dall'articolo 1785 c.c., secondo cui, l´albergatore, è esente da responsabilità nel caso in cui il deterioramento, la distruzione o la sottrazione del bene siano dovuti a forza maggiore o alla natura del bene stesso. Tuttavia, la giurisprudenza ha chiarito che, nell'eventualità di furti verificatosi a causa di negligenze nella sorveglianza dei locali dell´albergo, sussiste la responsabilità civile dell´albergatore nei confronti del cliente derubato.
In questa circostanza, sempre secondo la giurisprudenza (Cass. civ., sez. III, 7 maggio 2009, n. 10493) l´albergatore potrebbe liberarsi solo riuscendo a dimostrare che la prevenzione del furto avrebbe richiesto l´adozione di cautele e di costi sproporzionati ed inesigibili rispetto alla natura, al livello e
ai prezzi della prestazione alberghiera, nonchè in relazione al rischio concreto del verificarsi di eventi del genere di quello in oggetto .
La pronuncia in questione (Cass. civ., sez. III, 7 maggio 2009, n. 10493) riguardava il caso di furto di una pelliccia di valore (alla presenza degli occupanti, che dormivano) nella stanza di un albergo.
Dalla suddetta sentenza della Corte, emerge che, all'incompletezza del servizio di custodia (orario limitato del servizio depositi) deve fare riscontro una particolare vigilanza sull'albergo e sull'accesso alle camere, nelle ore di chiusura del servizio.

Pertanto, senza dilungarmi oltre, ritengo Lei abbia ottime possibilità di far valere le sue ragioni.

Distinti Saluti.

giovedì 19 maggio 2011

PRESCRIZIONE DI 5 ANNI PER L'ASSEGNO DI MANTENIMENTO

I ratei mensili degli assegni di mantenimento per i figli, così come gli assegni di separazione e di divorzio per il coniuge, costituendo prestazioni che debbono essere pagate periodicamente in termini inferiori all’anno, ai sensi dell’art. 2948, n. 4, cod. civ., si prescrivono in cinque anni, non rilevando, al fine dell’operatività di tale norma - anziché di quella dell’art. 2953 - il fatto che essi siano dovuti in forza di sentenza di separazione o divorzio passata in giudicato, costituendo questa fonte dell’obbligazione periodica e titolo esecutivo per l’esazione dei singoli ratei, ma non costituendo invece giudicato sulla debenza del singolo rateo, tenuto conto della particolare struttura delle obbligazioni in questione (Cass., Sez. I, 1 giugno 2010, n. 13414).

lunedì 9 maggio 2011

-AMIANTO- BENEFICI CONTRIBUTIVI: NATURA PREVIDENZIALE O RISARCITORIA?

La legge 257/92 rubricata “norme relative alla cessazione dell'impiego dell'amianto” pone un complesso problema interpretativo avente ad oggetto la natura del beneficio previsto dall'art.13 della suddetta legge a favore del lavoratore impegnato in attività a contatto con l'amianto e che abbia maturato almeno 30 anni di contributi. La legge, prevede infatti, una maggiorazione dell'anzianità assicurativa e contributiva pari al periodo necessario per la maturazione del requisito dei trentacinque anni. La problematica riguarda la natura del beneficio previsto a favore del lavoratore, se debba intendersi come un beneficio di natura previdenziale o di natura risarcitoria (o quantomeno indennitaria). La scelta non è di poco conto e per capirne la portata è possibile partire da un caso concreto. Supponiamo che un lavoratore impegnato per dieci anni in un'attività a contatto con l'amianto, al momento dell'entrata in vigore della legge 257/92 avesse già maturato 34 anni di contributi e pertanto ottenga una maggiorazione contributiva soltanto di un anno. E' possibile monetizzare gli anni in cui ha lavorato senza poter usufruire della maggiorazione dell'anzianità contributiva? E nell'eventualità di risposta affermativa, a titolo di risarcimento o di indennizzo?

La tesi prevalente che nega la natura risarcitoria della norma a favore di una natura previdenziale, si fonda sulla affermazione che la l. 257/92 abbia il solo fine di garantire un pensionamento anticipato ma, se così fosse, a che titolo le sentenze, di seguito menzionate, hanno statuito per la maggiorazione dei contributi pensionistici di lavoratori già in pensione? E’ chiaro che, in tali ipotesi, non viene in rilievo alcuna finalità di prepensionamento anticipato, e sembrerebbe dunque emergere un intento risarcitorio.
Infatti, con due distinte sentenze che assurgono a “giurisprudenza”, il Giudice del Lavoro di Lecco ha riconosciuto a 12 lavoratori (11 erano in pensione, uno era prossimo al congedo dell’azienda) il diritto a una maggiorazione contributiva pensionistica per essere rimasti a lungo esposti all’amianto. Il ricorso era stato depositato nel febbraio 2008 e la vicenda si è conclusa con la condanna dell’Inps a erogare le maggiorazioni contributive previste dalla Legge 257/92 . Il ricorso era stato presentato allorché i 12 lavoratori si videro rifiutare dalle due aziende l’incremento contributivo.
Ne consegue che i beneficiari della maggiorazione contributiva non sono solo coloro che, in attività di servizio, debbono ancora maturare il diritto  alla pensione, ma anche i lavoratori già pensionati (che sono stati esposti  all’amianto). 
Ad adiuvandum, la Corte costituzionale, con sentenza del 12 gennaio 2000 n. 5, ha sottolineato che la finalità della norma in questione è di natura indennitario/risarcitoria del “bene salute” sottoposto a rischio effettivo o potenziale (rifiutando la pregressa tesi della Cassazione che lo individuava in un beneficio a tutela del pregiudicato “bene dell’occupazione” conseguente alla cessazione dell’uso e produzione dell’amianto, e dunque ristretto ai soli lavoratori impiegati nelle specifiche industrie e lavorazioni dismesse). Per dissipare qualsiasi equivoco al riguardo, la Corte costituzionale, ha espressamente statuito che “lo scopo della disposizione (art. 13, comma 8°, L. 257/92), va rinvenuto nella finalità di offrire, ai lavoratori esposti all’amianto per un apprezzabile periodo di tempo (almeno 10 anni), un beneficio correlato alla possibile incidenza invalidante di lavorazioni che, in qualche modo, presentano potenzialità morbigene”.
Inoltre, altra chiarificazione desumibile dalla formulazione dell’art. 13 L. 257/92 e in particolare dal comma 8, è quella che comporta la pacifica spettanza del beneficio anche per quei lavoratori in attività di servizio che all’amianto sono stati esposti in periodi totalmente o parzialmente precedenti all’entrata in vigore della L. n. 257/92, sia perché  manca nella legge qualsiasi correlazione alla “dipendenza” attuale da imprese (che utilizzano o meno l’amianto come materia prima) già contenuto nel testo iniziale del D. L. 169/93, poi eliminato nella L. 271/93 di conversione, sia per l’uso del termine al passato “lavoratori che siano stati esposti all’amianto”.
Sempre la Corte costituzionale nella sopra menzionata sentenza 12 gennaio 2000 n. 5, designa correttamente ed esaustivamente la finalità  dell’art. 13, comma 8°, della L. n. 257/1992, tanto da non poter essere più messa in discussione e quindi caducando, implicitamente, il vecchio orientamento della Cassazione espresso nelle decisioni n. 6605/1998, n. 6620/1998, n. 7407/1998 e n. 10722/1998  facente perno sul diverso scopo di tutela del bene/occupazione. Infatti, la Corte Costituzionale, individua la finalità della legge nella volontà di risarcire un danno potenziale (o effettivo) arrecabile al bene della salute. A tal fine, la Corte espressamente afferma: “Lo scopo della disposizione censurata (art. 13, 8 comma, L. n. 257/92,) va rinvenuto nella finalità di offrire, ai lavoratori esposti all’amianto per un apprezzabile periodo di tempo (almeno 10 anni), un beneficio correlato alla possibile incidenza invalidante di lavorazioni che, in qualche modo, presentano potenzialità morbigene. Il criterio dell’esposizione decennale costituisce un dato di riferimento tutt’altro che indeterminato, specie se si considera il suo collegamento, contemplato nello stesso articolo 13, comma 8, al sistema generale di assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dall’amianto, gestito dall’Inail. Nell’ambito di tale correlazione, il concetto di esposizione ultradecennale, coniugando l’elemento temporale con quello di attività lavorativa soggetta al richiamato sistema di tutela, viene ad implicare, necessariamente, quello di rischio, e, più precisamente, di rischio morbigeno rispetto alle patologie, quali esse siano, che l’amianto è capace di generare per la sua presenza nell’ambiente di lavoro;
Una volta affermato, come correttamente fa la Corte costituzionale nella decisione n. 5/2000, che la finalità del legislatore estensore dell’art. 13, 8° comma, della L. n. 257/1992, risiedeva  nell’approntare misure di ristoro e di indennizzo nei confronti degli irrimediabili pregiudizi alla salute, suscettibili di risolversi in un accorciamento della vita dei lavoratori, non si comprende perchè gli orientamenti più recenti negano i precedenti giurisprudenziali che identificavano il beneficio della supervalutazione contributiva in una misura legislativa di tutela compensativa per i lavoratori anche quando, ad esempio, si fossero trovati privi dell’occupazione e non avessero potuto ricorrere agli altri strumenti approntati dall’art. 13 (cioè ad esempio i prepensionamenti).
Dunque, la logica per cui i benefici di supervalutazione contributiva siano finalizzati a risarcire i pregiudizi potenziali al bene/salute sembra essere negata, non tenendo conto, in tal modo, delle reali intenzioni del legislatore. Infatti, la stessa scelta legislativa di condizionare al solo requisito della “esposizione temporale ultradecennale” ad una sostanza ad innegabile rischio morbigeno, la spettanza del beneficio della supervalutazione contributiva del periodo di esposizione medesima, rappresenta di per sè un valido e ragionevole criterio indicativo della finalità indennitario/risarcitoria della platea dei beneficiari.
E giustappunto è la stessa Corte costituzionale che si premura di affermare che “ il concetto di esposizione ultradecennale viene ad implicare, necessariamente, quello di rischio, e, più precisamente di rischio morbigeno rispetto alle patologie, “quali esse siano”,  che l’amianto è capace di generare per la presenza nell’ambiente di lavoro”.
Ad ogni modo, le conclusioni più convincenti per affrontare  la tematica in oggetto si leggono nell’approfondita ed esaustiva sentenza del Tribunale di Ravenna del 13 aprile 2001 ove la questione è esaminata con dovizia di argomentazioni, il cui rigoroso estensore,  si è espresso nel senso che: “In base alla L. n. 257/1992, secondo l'interpretazione della Corte costituzionale resa con la sentenza 12 gennaio 2000, n. 5, i benefici per l'esposizione all'amianto non sono limitati a chi era soggetto al premio per l'asbestosi, né solamente a chi ha perso il posto nel settore amianto, ma sono dovuti a tutti i lavoratori esposti per oltre dieci anni all'amianto - in funzione compensativa/risarcitoria a favore di chi ha avuto accorciata presumibilmente la vita per l'esposizione all'amianto e che è soggetto dopo un periodo lunghissimo al sopraggiungere improvviso e imprevedibile di malattie gravissime o della morte.
Emergendo, dunque, un’innegabile funzione risarcitoria, non è possibile negare la monetizzazione del beneficio per quei lavoratori che hanno lavorato per oltre trent’anni senza poter usufruire della maggiorazione dell'anzianità contributiva. Anche perché, diversamente, si darebbe luogo ad un trattamento discriminatorio. A tal proposito appare utile seguire il percorso logico del Tribunale di Ravenna che, con ordinanza dell’11 giugno 2009, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 13 comma 7 della legge 27 marzo 1992 n.257, nella parte in cui nega l’erogazione del beneficio per i lavoratori affetti da malattia cagionata da esposizione all’amianto che si trovassero già in pensione al momento della entrata in vigore della legge 257/1992.
Il giudice rimettente ha correttamente evidenziato che “qualunque lavoratore può contrarre una malattia da esposizione all’amianto a prescindere dalla data di conseguimento della pensione, dalla cessazione dell’attività morbigena e dal settore lavorativo di appartenenza”, posto che, le malattie da amianto possono sopraggiungere anche a notevole distanza di tempo dalla esposizione professionale e dalla cessazione della attività lavorativa, rappresentando, dunque, un evento futuro ed incerto,privo di qualsiasi correlazione con l’epoca del pensionamento. Ciò, oltre a determinare un’irragionevole disparità di trattamento, escluderebbe, ad esempio, la tutela dei lavoratori che hanno cessato di svolgere la propria attività lavorativa perché ammalati. Sostiene ancora il giudice rimettente, “differenziare chi è andato in pensione per lo stesso fatto di aver contratto la malattia prima o dopo l’entrata in vigore della legge”, produrrebbe un’innegabile disparità di trattamento che risulterebbe in contrasto con i doveri inderogabili di solidarietà sociale ed umana sanciti dall’art. 2 Cost.
Arroccarsi su una mera finalità di pensionamento anticipato, così come ha fatto la Corte Costituzionale con la conseguente sentenza dell’ 8 OTTOBRE 2010 N.290, significa non voler percepire lo spirito riparatorio e di solidarietà umana verso cui intendeva muoversi il legislatore che, anche recentemente, sembra seguire un iter opposto rispetto alle sentenze della Corte.
Esiste infatti, una “bozza di d.d.l. di modifica dell’art. 13, 8° co., l. n. 257/92” composta da 5 articoli, utile per capire l'intenzione verso cui si è orientato e continua ad orientarsi il legislatore. Il contenuto di questa “bozza”, tramite l’abrogazione della preesistente normativa, in sintesi, mira  a sganciare la "maggiorazione"  dell’anzianità contributiva ad una mera finalità di pensionamento anticipato e a trasformarla invece in “beneficio economico”. Infatti, l’intentio legis, è quella di evitare il continuo proliferare di interpretazioni intorno ad una norma che, in primis, si pone a tutela di quei lavoratori, la cui esposizione all’amianto possa aver compromesso il bene fondamentale della salute. Il futuro intervento del legislatore dovrebbe evitare, una volta per tutte, che l’ambito operativo della norma venga ristretto entro una mera e quanto mai insufficiente finalità di prepensionamento.